L’autrice Lorena Carbonara con “FERMA ZITELLA” concorre inoltre al Premio Speciale Giuria Popolare 2021
Quest’anno, la vincitrice del PREMIO SPECIALE SEZIONE DONNE ITALIANE del XVI Concorso letterario nazionale Lingua Madre dedicato alle donne migranti (o di origine straniera) residenti in Italia e alle donne italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’Altra è un’autrice residente a Monopoli: Lorena Carbonara.
Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre è un progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino, nato nel 2005 da un’idea di Daniela Finocchi, che opera sotto gli auspici del Centro per il Libro e la Lettura con il patrocinio di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, We Women for Expo, Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, Pubblicità Progresso Fondazione per la Comunicazione Sociale.
La Premiazione si svolgerà nell’ambito del Salone Internazionale del Libro di Torino, previsto dal 14 al 18 ottobre 2021.
L’autrice concorre inoltre al Premio Speciale Giuria Popolare 2021 con il suo racconto.
Lorena Carbonara [Italia]
FERMA ZITELLA
Ferma zitella ca si carcerata
mo ci t’aggiu ‘ncuntrata sola sola
lassame scire nennu pe la strata
ca su zitella e perdu la furtuna
(canto tradizionale del Salento)
Corri Concetta, corri! Tuo padre sta rientrando con la provvista di legna per la sera e tua madre, come il faro rosso del molo vecchio, già guarda in fondo al viale: «La scema non torna! Non torna!».
Aggiustati il vestito, Concetta, che quella se ne accorge. Le vede le pieghe che si sono fatte nella stoffa mentre ti abbracciavi a Nuccio, sul muretto dietro alla chiesa. E sente l’odore, quella, tua madre, sente l’odore della libertà e te lo strappa insieme al vestito. L’hai cucito tu, Concettina, col lumino a olio di sera, di nascosto. Ti sei fatta il ricamino pure. Corri adesso però, il sole è tramontato dietro agli ulivi, gli uomini hanno accarezzato gli animali e si sente già l’odore di cenere nell’aria. Togliti le scarpe e corri più veloce. La senti la voce di tua madre che grida, lo vedi tuo padre sotto il fico che fuma? Preparati Concetta, perché vedranno Nuccio negli occhi tuoi e lo vorranno distruggere. Che ne so, digli della Santina, che voleva una mano con il paniere delle uova, o del prete, che bisognava spazzare la sacrestia. «Eccola, la solita scema! Vieni qua! Vai a togliere i ceci dal fuoco, scema!».
Fa male Concetta, lo so. In piedi sullo sgabello di legno, in bagno, ti guardi allo specchio. Hai la pelle di una bambina, bianca bianca, perché nei campi a lavorare non ci vai e i tuoi capelli sono fitti e lunghi, del colore delle castagne. Peccato per quel nero attorno all’occhio, te lo porti per giorni, ogni volta, e ci dovrai mettere una ciocca di capelli sopra e il fazzoletto. Chissà che deve dire Nuccio ora che ti vede.
«Titina mia, ce ne dobbiamo scappare!»
«Non sia mai, Nuccio mio! Quelli ci uccidono!»
«E come dobbiamo fare? Sempre il fazzoletto devi portare?».
Concettina, tenevi diciotto anni e la casa del lattaio in fondo al viale era la fine del mondo tuo. Nuccio era un ragazzo alto e magro, coi capelli nero corvino, sempre elegante. Cantavate insieme nel coro della chiesa e quella volta, al funerale di Peppino di tua zia Marisa, se ne sono accorti tutti che vi guardavate. Perfino il prete! E sono incominciati gli occhi neri e i fazzoletti, per coprire le vergogne.
Concetta, come ti è venuto in mente di fissarti proprio con lui? Quella è una famiglia strana. Le sorelle sue, quattro ne tiene, sono alte alte e impettite e si credono ancora le regine della contrada. E il padre era un uomo violento, si dice. Che ci facevi tu in mezzo a quelli… Che ti feriva pure un alito di vento!
Alla bottega della sarta imparasti a fare gli abiti pure agli uomini, ma non li potevi cucire. Non ti facevano prendere le misure. Invece alle spose – Madonna! – quanti vestiti hai fatto e quante ne hai preparate il giorno del matrimonio. Quando le addobbavi, immaginavi sempre il matrimonio tuo, con i fiori nei capelli e il velo lungo lungo. Se qualcuna piangeva, ti dispiaceva, capivi che l’avevano sposata a uno vecchio. Ma tu e Nuccio, tu e Nuccio no, voi vi amavate. Quella volta che ti venne a salutare dietro alla masseria chi se la scorda. Tu eri uscita per raffreddare il ferro da stiro e quello si affacciò dal muro in alto: «Mamma mia se ti vedono!». Corresti in casa col cuore che esplodeva in petto e tanta era l’agitazione che bruciasti la federa del cuscino e ti mettesti a piangere, forte. Poi arrivò tua madre – che la moglie del fattore l’aveva avvisata – e il giorno dopo non ti potevi alzare per i dolori. All’alba, infornasti il pane lo stesso, per gli uomini che andavano giù al porto a lavorare.
Concetta, quante lettere hai nascosto nella carta del pane. Tua cugina Rosa le portava a Nuccio su al cantiere e lui le leggeva quando andava a urinare dietro agli alberi, per non farsi scoprire. “Nuccetto mio, questo destino non ci vuole insieme, ma noi la troviamo una soluzione?”. Il fatto è che ci stava il militare da fare, due anni, e tu dovevi aspettare. “Sono tua”, gli avevi scritto sull’ultimo biglietto.
Tua madre lo trovò e successe il pandemonio. Nuccio partì e tu, ferma ferma, dietro alla finestra.
Nemmeno alla stazione ti fecero andare, dove stavano tutti gli amici per un saluto. Tuo padre ti convinse a mangiare un pezzo di pane col latte dopo tre giorni. Menomale che tua cugina Rosa trovò un modo per farti arrivare le lettere, una volta al mese. Te le metteva nella stoffa che ti portava per cucire i corredi e tu le leggevi di notte, con la candela accesa. Il giorno dopo, infilavi la risposta nel lenzuolo finito e Rosa le portava a Nina, la sorella di Nuccio. Un anno andò avanti così. Poi, un giorno, all’improvviso: “Mia cara Concetta, non ce la faccio più con la tua famiglia, ci dobbiamo lasciare. Firmato, Nuccio”. Quante lacrime, quanto dolore a leggere quelle parole. “Un addio mi lasci e un addio ti do, tua indimenticabile o dimenticata”, rispondesti, e allora fu che diventammo amiche.
Eri stata sempre brava a parlare e quella frase la scegliesti bene bene. Addio, Nuccio, addio. Per giorni non scendesti dal letto, pure la febbre ti facesti venire. Non ci potevi proprio credere che ti aveva abbandonata così ma non lo potevi mica pregare, eri troppo orgogliosa. A casa tua iniziarono a dire che ti dovevano portare dal Santo per farti curare, che ti avevano fatto una fattura, che eri pazza. Tuo padre mi chiamò per aiutare nei lavori pesanti di casa, ti ricordi? E non ci separammo più, io e te. La gente mi scansava perché ero straniera ma tu stavi troppo male per accorgerti della differenza o eri troppo sola, come me. Piano piano apristi le finestre e lasciasti la stanza tua, e il pomeriggio incominciammo ad andarcene per campi a mangiare i frutti dagli alberi, «Ana! Ana! Guarda queste ciliegie!» Poi, a un certo punto, quando il sole calava tra i rami, scendeva la tristezza e restavi muta.
Allora io capivo che stavi pensando a Nuccio e ti lasciavo stare.
Dalla finestra della stanza mia, vicino al fienile, ti avevo sempre spiata e sapevo tutto di te, di Nuccio e degli occhi neri sotto al fazzoletto. Allora pensavo che eri una ragazza viziata, avevi tutto: ti cucivi i vestiti da sola con le stoffe migliori e sapevi leggere e scrivere. Io non le avevo tutte queste cose, né al paese mio né qui. Ero piccola quando dal mare arrivai nella contrada e non capivo niente, la gente per parlare con me alzava la voce ma io non ero sorda, non sapevo le parole. Forse era meglio così, sai, Concetta. Quando ho iniziato a capire, quelle parole sono arrivate come sassi a colpirmi il volto e il cuore. La zingara, la forestiera, la ‘gnura, la poveraccia. Mi hanno chiamata in tutti i modi tranne che col mio nome, semplice, Ana. Tu però eri diversa, pure prima di diventare amica mia. Un giorno prendesti la lavagnetta col gesso, mi insegnasti le lettere e mi regalasti un quaderno. Da allora, non ho smesso mai più di scrivere.
Prima dell’imbrunire, mi facevi un segno dalla finestra e io passavo dietro alla stalla e strisciavo tra le reti sotto gli ulivi per non farmi vedere dal fattore. La puzza delle olive schiacciate mi entrava nel naso insieme a quella del formaggio e delle pecore. Zitte zitte, aprivamo la porta della chiesetta abbandonata e tu ti mettevi sull’altare a fare la maestra. Io mi sedevo a terra e mi parevi come la Madonna, come nel disegno sbiadito sul muro alle tue spalle. Ogni tanto, qualche uccello che aveva fatto il nido nel buco vicino alla finestra ci volava addosso e ci mettevamo a gridare. Allora ci nascondevamo nell’angolo per non farci scoprire e restavamo lì, abbracciate nella polvere, strette strette, in attesa che il cane del guardiano si scocciasse. Era il nostro segreto, Concetta, eravamo due profughe. Certe volte portavi con te pure qualche libro e mi leggevi delle poesie. Il suono della tua voce ancora me lo ricordo, anche se non capivo proprio tutte le parole.
Col tempo ne ho imparate tante e ora che insegno ai bambini nella scuola giù al paese quasi non mi sembra vero che la mia classe era una chiesa e che la mia maestra eri tu. Per questo sto qui oggi, proprio vicino a casa tua. Mi sembra di vederti che corri col vestito stropicciato e le scarpe in mano e di sentire le grida di tua madre, «La scema non torna!». Al cimitero ti ho lasciato un fiore di stoffa, perché eri una sarta, non solo una zitella. Nuccio non ti ha voluto sposare e da allora ti hanno trattata come una donnaccia, come una povera matta. E il fatto che eravamo amiche ha peggiorato pure le cose. Una volta ci siamo scritte e mi hai raccontato degli uomini che ti mettevano la mano sotto la gonna, che secondo loro eri di tutti. Io credevo che queste storie fossero solo del paese mio, ma non è vero. Mi sembra che, a noi femmine, ci debbano torturare per forza. Ma la verità, Concetta mia, è che ti ho abbandonata pure io, lo so. Me ne sono andata a cercare fortuna con il quaderno consumato e le scarpe vecchie che mi hai prestato tu, e non sono più tornata. Ora mi tocca parlare al tuo fantasma col fazzoletto in fronte, mentre passeggio tra i ciliegi con le scarpe nuove e mi ricordo del sole che tramontava tra i rami e della tristezza che ti assaliva. Lo sapevi, forse, allora che ti avrebbero ammazzata di botte.
Liberamente ispirato alla storia delle nostre nonne nel Mediterraneo.